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Bruno Corà

Christiane Löhr: Forme che si sottraggono allo sguardo

Indelebile e vivo riaffiora il ricordo del primo incontro con l’opera di Christiane Löhr: nell’istante della percezione, quello in cui le forme osservate apparivano sospese nella condizione epifanica, esse in realtà si sottraevano allo sguardo. Momento e sensazione davvero di grande stupore che in seguito si sono ripetuti come amletiche interrogazioni sull’entità della forma e dello spazio da lei concepiti e realizzati. more

Nell’opera di Christiane Löhr si manifestano alcune qualità e sono impegnate alcune proprietà che, pur appartenendo alla natura, nondimeno sono state acquisite come proprie dall’artista che, dopo averne ‘scoperto’ le facoltà e le possibili funzioni, se ne è servita per ‘formare’ le proprie creazioni. Tale processo è divenuto determinante e visivamente vistoso nell’arte umanistica e rinascimentale, soprattutto con la pittura di paesaggio e con la natura morta. L’evocazione della natura e dell’insieme inscindibile che si coniuga all’aria che la luce si fa carico di fondere in una sola entità che è la realtà nello spazio restituita dalla pittura, è la traccia su cui è tornata ad agire, come risalendo a una fonte inesauribile, Christiane Löhr. Ma se questo è un dato di partenza originario che – come un imprinting – si accompagna dagli esordi all’opera dell’artista tedesca, si deve però dire che l’obiettivo del suo lavoro plastico, ma anche del suo disegno, non è di carattere naturalistico ma, all’opposto, è rivolto a concepire, creare e situare le forme nello spazio. A metterci sul sentiero giusto in questa osservazione, oltre naturalmente alle sue opere, sono alcune dichiarazioni rese dalla Löhr nel corso di una conversazione:

“Il denominatore comune delle sculture si potrebbe definire come una congiunzione di elementi separati a partire dai quali si crea un solo pezzo che all’improvviso appare come una unità indivisibile. “Ordinatore”potrebbe esser l’attributo che più si avvicina alla funzione del mio intervento in questo processo (…) il motivo di fare sculture e disegni (…) ha a che fare con il movimento nello spazio, con l’atto di appropriazione e l’organizzazione dello spazio, i processi di espansione a partire da un punto interiore che si addentra nello spazio. La luce sulla carta e i volumi dei lavori plastici seguono questa visione”(1).

Da tale angolazione si comprende che l’opera della Löhr presenta aspetti di carattere formale che sono in egual misura rivolti sia all’autodefinizione dell’insieme plastico, sia al rapporto di questo con l’ambiente che lo circonda, senza perciò ignorare la natura del luogo che l’accoglie. Tanto per essere conseguenti alla circostanza, in questa occasione espositiva presso la Villa Panza, le opere della Löhr trovano sede negli ambienti della limonaia e delle due scuderie. In conseguenza del carattere di funzionalità di tali ambienti, il progetto espositivo ha osservato, nell’intenzione dell’artista, disposizioni particolari delle opere. Infatti, nella limonaia coabitano, sulle sole pareti, sia le sculture realizzate con materiali diversi, sia i disegni eseguiti a pastello a olio, a grafite e inchiostro. L’alternanza tra lavori plastici e disegni è libera e rispecchia un uso delle pareti sensibile a un’articolazione delle superfici tale da introdurre una particolare qualità spaziale nel luogo; essa è l’esito della reazione della carta alle diverse imprimiture di differenti mezzi segnici, quali l’inchiostro o l’olio, come pure delle forme plastiche appese al muro, rivelanti la forza di gravità in relazione al loro peso, alla loro forma e al modo della sospensione. Ciò che si distingue nell’allestimento concepito dall’artista in questo ambiente è l’esclusivo uso delle pareti e di nessun altro elemento della costruzione.

Diversa appare la sistemazione delle opere nella scuderia grande ove, all’opposto del registro verticale distintivo della loro collocazione nella limonaia, qui si osserva una disposizione su una medesima quota orizzontale risultante dai piani delle basi adoperate per poggiare le piccole sculture. Sulle numerose basi parallelepipede di legno dipinto in bianco si possono incontrare, distintamente o riunite in gruppi, sculture di diverso materiale vegetale, foggia e dimensione. Immaginando di poter osservare dall’alto l’intero allestimento, le opere sulle basi compongono un arcipelago di forme spazialmente fluttuanti, vere e proprie costellazioni formali. L’effetto di presenza centrale delle forme nell’intero ambiente ‘buca’ il vuoto palpabile che attraverso le opere si trasforma in spazio qualificato, governato dalle dimensioni dei rapporti proporzionali o dalle distanze dei lavori tra loro.

Alla verticalità e all’orizzontalità messe in risalto dalle numerose opere presenti in ciascuno dei due ambienti fa riscontro l’assolo della grande installazione compiuta in situ dalla Löhr nella scuderia piccola della villa. Si tratta di un grande lavoro realizzato con il crine equino e aghi per cucire. L’opera è fissata sulle due pareti più distanti che si fronteggiano, attraverso una serie di aghi messi a circonferenza e affissi alle pareti. A essi sono vincolati tanti fili di crine che, annodati tra loro producono nell’insieme una forma tubolare strombata alle due estremità e cilindrica nella sua zona intermedia. Per ottenere tale effetto la Löhr ha circondato la forma, al centro, con cerchi di crine costrittore che riduce nel centro il diametro di partenza e di arrivo già predisposto.

La costruzione di questa forma che attraversa tutto lo spazio rivela la ripetizione di gesti elementari nel disporre i filamenti di sostegno e di ancoraggio come anche la volontà di ottenere elasticità e resistenza al limite della percepibilità. Questa forma tubolare condivide con il fiume la sua continuità spaziale, con la musica la sua diffusione fluida, con l’aria l’essenza di esserci e non esserci. Ma essa aderisce perfettamente al senso generale del vivente: dove se non tutto si vede eppure c’è ed esiste.

Nei modi plastici della Löhr riaffiorano atti e gesti elementari che sono appartenuti al lavoro fabbrile e artistico da tempi immemorabili; dalle paleo-manifatture a quelle di grandi civiltà in cui la creazione artistica si qualificava nel dettagli microscopici con precisione consapevole, fino agli esiti di taluni esponenti del Bauhaus e all’opera di artisti come Penone, Laib, Tuttle, Beuys. L’attitudine a raccogliere reperti, a considerarne la struttura e la morfologia, acquisita dalla Löhr negli anni impegnati nello studio dell’archeologia unitamente alla rivelazione derivata dall’incontro con protagonisti di un’estetica come quella dell’arte povera e del minimalismo, in cui il rapporto tra corpi, volumi e spazio assume nuove valenze ha molto influito nell’apertura a diverse facoltà di percezione dell’ambiente circostante e di ciò che in esso si trova.

La Löhr riceve dall’incontro con l’insegnamento e l’opera di Kounellis, in particolare dall’immagine del Senza titolo, 1969 dei “cavalli” vivi esposti nella galleria dell’Attico, un impulso straordinario. L’interesse e il possesso già esercitato di un proprio cavallo spinge la Löhr a una nuova attenzione verso le caratteristiche di tale animale e il suo stesso ambiente. Le tracce che durante le escursioni esso lascia, le proprietà di elasticità e resistenza della criniera e della coda del quadrupede spesso ricettacoli di lappe di cui l’artista osserva le caratteristiche di aderenza aumentano le sue inclinazioni meditative e di studio dell’ambiente circostante fino alla scoperta di qualità fisiche di cui verifica le potenzialità e si appropria delle logiche. E’attraverso tale paziente tirocinio che Löhr perviene all’uso di materiali basilari per la sua azione: dai semi di edera a quelli di pioppo, dalle sfere dei denti di leone alle lappe, dal crine alle spore, dagli aghi alle reti. In tutti i casi, tali materiali e gli utensili minimali impiegati nell’elaborazione delle forme assolvono al compito di manifestarle nello spazio come se vi fossero pervenute in assenza di azioni esterne, cioè come quando uno sciame di centinaia di api converge all’unisono scegliendo di accumularsi in un solo punto di un ambiente a lui ospitale.

Tutto il lavoro della Löhr ha a che fare con il tempo. Nei disegni, posti sempre su un medesimo allineamento, si evidenzia una partizione segnica verticale quale taglio dello spazio e da essa si diramano linee recanti un ritmo organico che sottolinea l’articolazione di apertura. L’insieme dei segni, come struttura lineare vertebrata mediante tracce nere più o meno robuste, può giungere a una saturazione del foglio, trasformando la linearità in densità e, in tal caso, l’effetto si modifica come contrapposizione tra ombra della traccia nera disegnata e luce della porzione di bianco residuo del foglio di carta. Formare, per Löhr, significa conoscere le proprietà del materiale impiegato e operare in sintonia con la sua logica interna.

L’azione addittiva di Löhr di porre un elemento vegetale accanto all’altro, talvolta volendo riottenere, in una scala maggiore, la stessa forma che appartiene a ciascun elemento, oppure volendo conseguire una nuova morfologia complessiva all’interno della quale però si continua a riconoscere la singolarità della forma elementare, seppur tante volte ripetuta, reca a un effetto inedito e imprevisto. La nuova forma unitaria, pur suscitando nella percezione un dato a noi non incognito e dunque una qualche riconoscibilità che ci conferma una conoscenza già acquisita, simultaneamente ci stimola con un’ulteriore informazione dovuta ai nuovi lineamenti, ai mutati rapporti proporzionali e allo stupore per un nuovo organismo mai prima incontrato in quella foggia. Nel caso dell’impiego di semi l’unità dell’organismo che la Löhr consegue, pur offrendo alla vista una compattezza più o meno accentuata nelle forme a cuscino o a cupola o altre, presenta sempre però un grado di interna ariosità che è dovuto al maggiore o minore coefficiente di coesione tra le parti avvicinate. Quei ‘vuoti’ eventualmente esistenti tra i singoli elementi, con la loro valenza spaziale concorrono a definire la forma non senza averla dotata di una qualità impercettibile che, opposta alla differente opacità materica degli elementi vegetali, ne definisce l’insieme plastico. Non è inutile richiamare l’attenzione su tale esito plastico che – per numerose ragioni – si riscontra anche nell’opera di alcuni artisti poveristi. In una conversazione avuta con Mario Merz nel corso degli anni Ottanta, egli mi sollecitava a considerare che molte delle opere sue e dei suoi amici artisti di quegli anni esibivano al loro interno, e se ne giovavano in quanto dato strutturale, differenti quantità di ’vuoti’, inscindibili dal pieno dei materiali impiegati. In particolare, nell’opera di Merz ciò si evidenziava nella qualità plastica delle fascine vegetali giustapposte ai tavoli o accatastate a siepe nella costruzione di spirali o raggruppate a sostegno di una tela montata su un telaio metallico tubolare di diverse sue opere.

Ma di certi ‘vuoti’ si avvalgono infatti le opere come Catasta, 1966 di Boetti, Orchestra di stracci, 1968 di Pistoletto, Senza titolo 1967 di Kounellis, un quintale di carbone accumulato sul pavimento dello studio, o Bachi da setola, 1968 di Pascali.

Oltretutto, nell’opera della Löhr la qualità di taluni semi presenta una parte densa e oggettivamente più scura e solida e una parte più capillare e leggera che è determinante nel sottrarre visivamente ingombro alla totalità delle forme ogni volta ideate e realizzate. Al punto che sono proprio le opere a base di crine di cavallo a mettere in scacco la percezione e a suscitare quell’effetto di sottrazione allo sguardo a cui si è inizialmente accennato.

Da ultimo, l’impiego di piccole strutture vegetali essiccate, la cui forma reca la struttura geometrica frattale, dischiude anche verso questo ambito di osservazione una zona di riflessione sulla qualità geometrica dell’opera della Löhr, suscettibile di sviluppi imprevedibili quanto attesi.

(1) Christiane Löhr, conversazione con Pilar Baos, in Christiane Löhr – Sortint de l’embull, catalogo mostra, Espai Cùbic /Espai Zero, 28 marzo – 31 maggio 2009, pp. 103-113.

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